Una drammaturgia di Ippolito Dell'Anna. Regia di Nino Campisi.
“Delitto e Castigo” di Fedor Dostoevskij, una drammaturgia di Ippolito Dell'Anna, con Maurizio Corrado, Agnese Corsi, Ippolito Dell'Anna, Francesco Di Nubila, Leonardo Galotto, Fabio Garau, Simona Ortolani e con Mariù Pascoli. Regia di Nino Campisi.
“Con Delitto e castigo, nella sceneggiatura proposta da Ippolito Dell’Anna, mettiamo al centro del nostro studio l’uomo dostoevskiano per eccellenza, Rodion Romanovič Raskol'nikov, tratteggiato dall’autore russo in una scrittura densa di descrizioni quasi materiche e da una acuta introspezione psicologica. Il cognome del protagonista riecheggia quello della setta ortodossa dei Raskol’niki (scissionisti), propugnatori di un integralismo cristiano che si opponeva alle nuove forme di liturgia.
Raskol'nikov è un eroe negativo, figlio della crisi economica e sociale, ma soprattutto morale, che attanaglia la Russia fin dalla prima metà dell’Ottocento, quando a seguito delle riforme introdotte dallo zar Alessandro II, viene sconvolto l’assetto della vecchia società feudale, e milioni di servi della gleba si riversano nelle grandi città andando a formare quel proletariato urbano che darà vita a fenomeni sociali fino ad allora marginali, quali l’alcolismo, la prostituzione, la miseria generalizzata, l’aumento dei crimini e dei delitti. Ad accompagnare questi mutamenti, il sorgere delle nuove ideologie dei nichilisti rivoluzionari, che con le loro idee antizariste anticipano la rivolta del proletariato urbano e operaio contro il crescente capitalismo russo. L’uomo nuovo, dedito all’azione, qual’è Raskol'nikov, divide l’umanità tra uomini ordinari, destinati a subire le angherie dei ricchi, e uomini straordinari in grado di cambiare il cammino della Storia.
Egli giustifica così il diritto a uccidere pur di realizzare i suoi obiettivi, ma non fa i conti con l’essenza dell’uomo e con la coscienza, con la ricerca di un’autentica felicità. Raskol'nikov, accecato dalla sua ideologia estrema, concepisce e mette in atto l’assassinio della spregevole vecchia usuraia Alëna Ivanovna. L’esistenzialismo esasperato del giovane studente, capace di giustificare l’assassinio e il terrore, quando esso sia messo al servizio dell’emancipazione dell’uomo e della società, viene descritto da Dostoevskij nel suo tempo culminante, quello in cui il disagio esistenziale e intellettuale di Rodja si traduce in azione. In questo punto di rottura, di shock (direbbe Gurdijeff), avviene qualcosa che trasmuta la personalità e la sospinge, seppur in modo violento, verso il cambiamento.(...)
Un cambiamento di paradigma radicale. Come una barca che si infrange contro gli scogli e si trasforma in zattera, così il protagonista di “Delitto e castigo” si frantuma nello scontro con la sua coscienza. Raskol'nikov vive e agisce in una condizione di delirio allucinatorio, in uno stato di grave compromissione della coscienza, le sue facoltà mentali sono state compromesse da eventi e da sentimenti negativi, dall’orgoglio, dalla rivalsa, dalla rabbia, dall’euforia, e in definitiva dalla paura. (...)
E ora sa che l’uomo straordinario, che avrebbe voluto essere e di cui ha vagheggiato con scritti filosofici in alcune riviste, non può esistere, che il destino non è nelle mani dell’uomo. A differenza di quegli assassini e terroristi che si pentono dopo essere stati scoperti e arrestati, il pentimento di Raskol'nikov avviene con il cambiamento del paradigma coscienziale. Egli non può fare a meno di ascoltare quella voce che emerge dai recessi nascosti del suo inconscio. Uccidendo la vecchia usuraia egli ha ucciso se stesso. E ora, come Lazzaro, risorge a nuova vita attraverso l’atto del pentimento. (...)
La sua guida spirituale in questo passaggio è la figura angelica di Sonja, la figlia del povero ubriacone Marmeladov, costretta a prostituirsi per mantenere la famiglia, le cui parole riecheggiano nella coscienza dell’eroe negativo: “Accettare la sofferenza ed espiare con essa la propria colpa, ecco cosa bisogna fare. (...) ”
L’idea centrale di “Delitto e castigo” è che l’uomo conquista la felicità con la sofferenza e con l’espiazione. “Non vi è in questo alcuna ingiustizia – scrive Dostoevskij nei suoi appunti - perché la conoscenza e la coscienza della vita (sentita direttamente con il corpo e con l’anima, ovvero con il processo stesso del vivere) si acquistano con l’esperienza dei pro e dei contra che bisogna provare su di sé con sofferenza.”
Condannato a morte nel 1849 per reati politici, graziato dallo zar e confinato ai lavori forzati in Siberia, precettato come soldato semplice e inviato in trincea al confine con la Cina, scrive Dostoevskij in una lettera al fratello: “Non mi sono disperato e non mi sono perso d’animo. La vita è ovunque vita, la vita è dentro di noi e non al di fuori. Accanto a me ci saranno uomini, essere un uomo tra gli uomini e rimanerlo per sempre, in qualsiasi sventura non disperare, non abbattersi, ecco cos’è la vita, ecco il suo vero compito. Adesso ne ho preso coscienza.”
Nino Campisi (Appunti di regia)